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Autonomia differenziata e istruzione: 4 proposte per cambiare tutto

4 proposte per far sì che l’autonomia differenziata, allo studio del governo, possa dare luogo ad un vero cambiamento nella scuola, realizzando per davvero l’autonomia scolastica

L’autonomia degli istituti scolastici, come noto, è stata introdotta nell’ordinamento italiano con art. 21 della legge 15 marzo 1997, n. 59: un articolo scritto direttamente dall’allora ministro dell’Istruzione, Luigi Berlinguer, che volle così incastonare l’autonomia delle scuole nel quadro ampio del sistema di autonomie sussidiarie disegnato dalla prima legge Bassanini. L’autonomia delle scuole era così riconosciuta (e non concessa) dallo Stato contestualmente alle altre autonomie cui si intendeva dare respiro. Il messaggio era chiaro: le diverse autonomie avevano la medesima dignità e il trasferimento di poteri dallo Stato alle Regioni e agli enti locali non doveva tradursi in nuove forme di centralismo localizzato, ma essere parte di un più ampio respiro in cui le autonomie – tanto quelle emanate dalla Repubblica, quanto quelle che erano espressione diretta della società – si collocavano nelle loro diverse funzioni su un piano di eguale dignità, in un’ottica pienamente sussidiaria.

In quel quadro è oggi da leggere il processo di autonomia differenziata avviato dalle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna: si tratta infatti di un processo previsto dal comma terzo dell’art. 116 della Costituzione, introdotto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, che ha recepito nella Carta gli elementi di decentramento, autonomia e sussidiarietà già presenti nelle leggi Bassanini.

Non si può quindi guardare all’ampliamento dei poteri regionali come a una semplice riproposizione delle prerogative e dei modi dello Stato di gestire la cosa pubblica. Né per altro può bastare sostenere che le cose andranno meglio semplicemente perché le Regioni sapranno gestire meglio – ovvero con più efficacia ed efficienza – i compiti prima di competenza statale. Occorre invece che la rafforzata autonomia regionale si collochi nel quadro ampio di una rinnovata stagione di autonomie: un’occasione per dare gambe e spazio al processo di responsabilità diffusa e sussidiarietà per cui non spetta al centro fare quanto può essere pienamente compiuto dalla periferia, né allo Stato, alla Regione o agli enti locali quanto la società può concretizzare come piena soddisfazione di tutti i portatori d’interessi.

Cosa fare dell’autonomia rafforzata in materia di istruzione e formazione? Possiamo immaginare che – come da altri ipotizzato – il ragionare su scala regionale possa promuovere processi virtuosi di innovazione, coinvolgendo in maniera costruttiva associazioni professionali e parti sociali, in una logica di mediazione alta?

Proviamo ad avanzare quattro proposte, una piattaforma che tenga al centro del ragionamento l’innalzamento della qualità dell’offerta formativa sul territorio, il rafforzamento dell’autonomia delle scuole e, di pari passo, lo sviluppo di un’effettiva parità tra scuole statali/regionali e scuole gestite da enti locali e privati che decidano di restare in pieno nel sistema pubblico.

Prima proposta: assegnare alle scuole il compito di individuare i propri docenti in entrata, attraverso un meccanismo simile a quello della chiamata per competenze già introdotto, timidamente, con la legge sulla “Buona Scuola” e poi annullato dall’attuale governo. Si dovrebbe garantire ai docenti già in ruolo presso una scuola la permanenza nell’attuale sede di servizio, assicurando così un’introduzione graduale del nuovo sistema che sarebbe adottato solo per i nuovi insegnanti e per quanti decidessero di mutare di sede su base volontaria.

Parallelamente, ed è la seconda proposta, le Regioni dovrebbero favorire l’attivazione di percorsi di formazione per docenti della scuola secondaria che permettano il conseguimento di una specializzazione con valore abilitante, necessaria per essere chiamati a ricoprire posti stabili (quindi non semplici supplenze) nelle scuole sulla base del proprio curriculum. A differenza di quanto fin qui realizzato in Italia, questi percorsi dovrebbero non essere tutti uniformi, ma rivolgersi a differenti categorie di aspiranti insegnanti per favorire, ad esempio, l’accesso all’insegnamento di chi in una prima fase della sua vita lavorativa ha preferito dedicarsi ad altre professioni.

Terza proposta: dare spazio a molteplici forme di autonomia scolastica rafforzata, adottando un modello simile a quello delle charter schools che trova ampio spazio ad esempio nel Regno Unito, in Portogallo o negli Stati Uniti. Si tratta in sostanza di consentire alle scuole che ne faranno richiesta e che – sulla base di una valutazione esterna – presenteranno determinate caratteristiche di mantenere i finanziamenti pubblici, ma dotandosi di una più ampia autonomia gestionale, fino a consentire una riorganizzazione degli strumenti di governance e un ampio margine nella definizione dei curricula, all’interno del perimetro definito dagli ordinamenti nazionali dei percorsi di istruzione. Nel sistema charter dovrebbero poter entrare, senza distinzioni, anche le scuole gestite da enti locali e privati, che accederebbero in questo modo a finanziamenti analoghi a quelli fin qui riservati alle scuole statali: una scelta di piena integrazione tra scuole pubbliche che favorirebbe la libertà di scelta delle famiglie, venendo meno in accesso la barriera rappresentata dalla retta.

Quarta e ultima proposta: rafforzare il sistema di valutazione delle scuole, potenziando con risorse regionali il modello costruito da Invalsi a livello nazionale, che sta dando prova di buona affidabilità. L’obiettivo sarebbe generalizzarne l’applicazione per garantire in breve tempo la valutazione di tutte le scuole pubbliche – quindi statali/regionali e paritarie – nell’arco di un triennio. Non parliamo qui di un sistema regionale di valutazione, sia chiaro, bensì di un rafforzamento regionale del sistema nazionale di valutazione, lasciando la titolarità delle operazioni in campo a Invalsi come attualmente avviene. Il sistema di valutazione potenziato dovrebbe consentire di seguire più da vicino il percorso di miglioramento delle scuole che otterranno valutazioni più basse (anche su questo esistono esperienze virtuose realizzate a suo tempo con le sperimentazioni nazionali VSQ e Vales) e di verificare il possesso e il mantenimento dei requisiti delle scuole che opteranno per il sistema charter, per le quali la valutazione potrà almeno in fase iniziale essere effettuata con maggiore frequenza, ad esempio su base biennale.

Immaginare che il regionalismo rafforzato si risolva solo in un’ipotetica migliore gestione dell’ordinaria amministrazione sarebbe rassegnarsi al topolino partorito dalla montagna. Ci sono gli spazi per non accontentarsi a fare un po’ meglio e decidere di percorrere invece strade in gran parte nuove per l’Italia, ma già ampiamente sperimentate nel resto d’Europa: sarebbe un peccato non provarci.

Ilsussidiario.net del 24.04.2019 - Emanuele Contu