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Così si riparte: tra le incertezze per il futuro e il Veneto che riapre le scuole

La Regione ha deciso di far tornare in classe gli allievi della scuola professionale. Don Poles: «La scuola non si fa al computer»

Tra le incertezze per il futuro il Veneto riapre le scuole. In questo periodo turbolento per la scuola c’è una Regione (dove Agesc è presente con oltre novemila iscritti) che ha deciso di riaprire: il Veneto. 6.217 studenti che possono beneficiare, di una settimana di ripasso e approfondimento in vista dell’esame. Sono le classi terze e quarte delle scuole professionali della Regione che stanno rientrando in classe per preparare al meglio gli esami di qualifica e per il diploma.

Ma perché questa scelta? Come ci racconta don Alberto Poles – salesiano –presidente di Forma Veneto, ovvero l’associazione che rappresenta il 97% delle scuole della formazione professionale del territorio, le motivazioni sono: dare ai ragazzi la possibilità, dopo l’interruzione, di un momento in cui incontrarsi e ringraziare gli insegnanti che li hanno guidati all’esame, passaggio fondamentale della vita, poi una valenza pragmatica, non in contrapposizione alle scelte del ministro, ma per studiare e sperimentare uno scenario possibile per settembre. Le scuole della formazione professionale Venete sono la dimostrazione concreta che un rientro in classe è possibile e che gli studenti sono al centro del processo educativo scolastico. Era inoltre indispensabile dare un supporto anche dal punto di vista psicologico.

«Come preside, ma soprattutto come educatore – racconta don Poles – ho l’impressione che coloro che stanno cercando soluzioni non conoscano le dinamiche degli studenti. Dividere i ragazzi con strutture fisiche e temporali è inutile perché sappiamo che gli studenti si spingono, si toccano da quando entrano nei mezzi pubblici a quando ritornano a casa. E siccome l’ottanta per cento del servizio di trasporto pubblico è riservato agli studenti, osservando le norme poste in essere nei treni o negli autobus (la seduta è verticale ed evita il contatto visivo) abbiamo applicato la stessa regola. I ragazzi sono seduti l’uno davanti all’altro guardando l’insegnante. Chi doveva prendere decisioni non aveva mai pensato alla scuola e adesso corra ai ripari. La scuola, per statuto, deve educare. Se noi non spieghiamo ai ragazzi ma utilizziamo i divieti non serve. Nelle nostre

scuole abbiamo il bidello che accoglie gli studenti con la mascherina, vengono controllati da un termoscanner (anche se la responsabilità dovrebbe essere dei genitori che per rispetto agli altri non dovrebbero mandare i figli a scuola con la febbre) e si igienizzano le mani prima di entrare in classe». «La scuola – prosegue il sacerdote – deve insegnare come bisogna affrontare le situazioni ecco perché spieghiamo le misure prudenziali da attuare sempre. Alla fine delle lezioni poi stracci e disinfettanti sono presenti per sanificare l’ambiente. Misure semplici che fanno parte della buona educazione ed igiene che noi abbiamo sempre attuato ma che molti hanno dimenticato. Ma vedere i ragazzi che in questa situazione sempre stati disciplinati e corretti, felici e sereni mi riempie il cuore».

Il ministero dell’istruzione deve rendersi conto che i ragazzi hanno subito un grande colpo emotivo con la perdita della socialità. Non serve ridurre il numero degli studenti, è importante avere l’autorevolezza. «Noi abbiamo classi numerose – ricorda don Poles – ma il livello di disciplina e didattica sono superiori ad altre realtà».

Cosa è mancato? «Forse il classico abbraccio – riprende – ma il potersi rivedere con il proprio insegnante che parla non dietro ai 50 cm dei monitor ma gira per i banchi fa la differenza. La scuola è educazione e non trasferimento di nozioni. Dietro ad un monitor trasferisco nozioni, ma il rapporto umano trasferisce esperienza e passione. Il covid è stata una grande opportunità per fare un passo deciso verso la digitalizzazione; era tutto pronto ma mancava la scintilla per attivare il meccanismo». Il futuro delle scuole paritarie? «Noi – conclude don Alberto – abbiamo il problema degli esuberi, ma capiscono che nelle piccole realtà i problemi ci sono». L’Agesc ha consegnato al premier Conte 30mila firme. È ora di cambiare marcia.