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Genitori smarriti di fronte alle nuove sfide di Rete e tv: «E se toccasse a mio figlio?»

RIFLESSIONI A MARGINE DEL “CASO” SQUID GAME

«Chi perde, muore». Sì, avete letto bene: «Chi perde, muore». È in estrema sintesi l’obiettivo di una serie televisiva che va per la maggiore tra i nostri ragazzi (addirittura i giovanissimi ne vanno pazzi) e che sembra ormai avviata a tagliare ogni traguardo di share. Un prodotto estremamente violento, la cui visione è consigliata a un pubblico superiore ai 14 anni, ma che di fatto poi è visto da chiunque lo voglia, perché nessuno è in grado di controllare la carta d’identità di chi accede a una piattaforma online.

Avrete capito che parliamo di Squid game, un nome che certamente non è nuovo, visto che in tanti ne hanno parlato proprio per l’impatto e le ricadute che questa serie ha sui nostri giovanissimi fruitori di internet.

Ad alzare il tiro e a puntare i riflettori sulle conseguenze provocate dalla serie televisiva è l’associazione Carolina Picchio con un appello al Garante dell’infanzia e all’AgCom e una petizione online lanciata su Change.org e diretta alla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza. Per chi non lo sapesse, l’associazione porta il nome della prima vittima accertata di cyberbullismo in Italia, Carolina Picchio appunto.

Purtroppo, le cronache recenti dicono, più di qualsiasi parola, quanto i tentativi di emulazione che riguardano i minori in età scolare impongano una riflessione collettiva, a partire dai genitori e da chi lavora nella scuola, e crediamo anche un intervento tempestivo dell’Istituzione che abbia come obiettivo la protezione e la tutela dei bambini. Censori no, certamente, ma vigili e responsabili, questo sì.

Perché sempre più spesso c’è una sorta di schizofrenia generale che alberga nelle menti di tutti noi: quella che, di primo acchito, fa pensare che «questo a me non succederà mai». Il problema, insomma, non mi tocca. È quel pensiero “liquido” che porta a spostare sempre più avanti i confini di una riflessione collettiva sulle grandi questioni che investono il nostro futuro, per certi versi la nostra sopravvivenza come società civile. Quante volte abbiamo sentito ripetere: «Non è giusto impedire certi modi di pensare o di agire, imporre regole. Ognuno è libero di fare della propria vita ciò che ritiene più giusto». Il problema non è la sacrosanta libertà individuale, il problema è che ci stiamo disabituando a pensare con il “noi”. Da decenni, ormai, ogni cosa che facciamo, pensiamo, progettiamo, parte da quella parolina composta da due lettere che se un tempo era forse impronunciabile oggi è il mantra di tutto: “Io”.

Ricordate la famosa canzone di Gaber che tutti abbiamo canticchiato e che ogni tanto torna fuori? Recita così: «La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione!». “Partecipazione”, scriveva e cantava Gaber. Per chi, come noi, ha un’impostazione e un pensiero che nasce e affonda le sue radici nella Parola di Dio, e un riferimento chiaro nella vita di Gesù di Nazareth, partecipazione è uguale ad «Ama il tuo prossimo come te stesso». Tutto, quindi, ci riguarda e tutto ci deve vedere impegnati, da cristiani.

Nel suo messaggio ai partecipanti della Settimana Sociale dei cattolici di Taranto, papa Francesco ha usato parole chiare riguardo all’impegno dei cattolici nella società: «Non possiamo rassegnarci e stare alla finestra a guardare, non possiamo restare indifferenti o apatici senza assumerci la responsabilità verso gli altri e verso la società. Siamo chiamati a essere lievito che fa fermentare la pasta. Non manchi il coraggio della conversione ecologica, ma non manchi soprattutto l’ardore della conversione comunitaria». Eccola la chiave: “conversione comunitaria”. Non da soli, dunque, ma insieme siamo chiamati ad abitare questa storia, questi problemi e a far sentire la nostra voce quando ce n’è bisogno, nel rispetto di tutti ma soprattutto di chi è più debole e indifeso.
Roberto Zoppi

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Fonte:Avvenire