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Una scuola troppo “facile” non favorisce le classi sociali emarginate

Come deve cambiare l'istruzione

Qualche giorno fa ha fatto scalpore una notizia: «La commissione ha esaminato 1.532 buste (ognuna contiene due elaborati) e sono stati definiti idonei solo 88 di questi». I numeri si riferiscono al concorso per entrare in magistratura e precisamente ai candidati che non hanno commesso errori nella scrittura dei compiti assegnati. Un florilegio di errori di grammatica e sintassi che ci fa chiedere chi ha promosso questa gente a scuola e all’università. In realtà le cose sono molto, ma molto più complesse. Mi permetto solo di fissare quattro punti cardinali, quasi una bussola, per orientarci in questa riflessione: la scuola non può bocciare, perché è un diritto di tutti conseguire il giusto livello di istruzione e aspirare alle più elevate posizioni sociali e culturali; a forza di promuovere tutti abbiamo danneggiato i più bravi e desiderosi di impegnarsi, che spesso appartengono alle classi più fragili e socialmente marginali. La scuola non è più un ascensore sociale; la scuola non deve essere noiosa, ma piacevole. A scuola si deve star bene; se i ragazzi non imparano a scuola il sacrificio e l’impegno non saranno pronti ad affrontare la vita. I lettori avranno riconosciuto che i quattro punti cardinali rappresentano le opposte posizioni pedagogiche che si sono fronteggiate in questi ultimi quarant’anni in tema di scuola ed educazione. Da un lato l’esigenza di potenziare la scuola come luogo di socializzazione. Dall’altro la necessità di rispondere alla richiesta sempre maggiore di competenze da parte della Knowledge Society, la “Società della conoscenza”, nella quale non la ricchezza produce cultura, ma il sapere produce ricchezza.

Evidentemente qualcosa non ha funzionato. Chi nella scuola vive e lavora da qualche decennio e guarda agli eventi sempre con la dovuta passione educativa, ma anche con l’impegno di evitare derive verso la superficialità e il pressapochismo, sa bene che il nodo non sta tanto nei momenti liturgici della valutazione, come gli scrutini finali e gli Esami di Stato; il cuore della questione è nella vita scolastica di tutti i giorni, nella banale, noiosa, insostituibile routine quotidiana. Non neghiamolo: si sono perse alcune buone pratiche che invece di essere eliminate e tacciate di arcaismo pedagogico andavano valorizzate e sostenute. La prima è l’apprendimento a memoria di poesie e di testi facili, senza il quale non si può arricchire il repertorio personale delle parole; la seconda è l’esercizio della esposizione narrativa orale e scritta, che richiede tempi lunghi e distesi di esercizio e di pratica.

Se in passato la scuola superiore era frequentata da coloro che quasi naturalmente avevano queste doti, oggi abbiamo una scuola di tutti. L’universo dei nati coincide, nella scuola primaria, con l’universo degli alunni e nelle superiori ormai, pur con diverse percentuali di dispersione a seconda dei territori, la quasi totalità degli adolescenti è comunque presente per assolvere l’obbligo e conseguire un titolo. L’impegno per i docenti, dunque, si è fatto molto più difficile e complesso.

Di fronte a questa situazione era evidente che non bastasse un solo docente di italiano in ogni classe. La conoscenza della cultura letteraria è fondamentale, ma è assolutamente necessario avere una persona dedicata esclusivamente alla attività di dialogo e scrittura. Pratica questa che deve essere attivata costantemente in tutti i gradi nel corso dei tredici anni di scuola. La scrittura è un’attività difficile, richiede esercizio, maturazione, fatica, capacità di esprimersi anche oralmente. Nella società dei velocisti, ci sarà spazio per i maratoneti? Forse dobbiamo rivedere il nostro concetto di scuola. Ormai è evidente che la secondarizzazione della primaria comporta ipso facto la primarizzazione della secondaria. Trenta ore settimanali con dieci o dodici materie sono meno efficaci di venticinque con sei o sette materie svolte in modo approfondito e disteso. Ci siamo preoccupati troppo di insegnare di più invece che di insegnare meglio. E questo è il risultato. A scuola non si deve imparare tutto, ma ciò che è funzionale per imparare a imparare. Sono anni che chi sa di scuola lo ripete. Qualcuno ci ascolterà?
Stefano Quaglia

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Fonte:Avvenire