L'unica chance per non morire di posto fisso (che manca)

Il lavoro sta cambiando, noi rischiamo di rimanere fermi. E le conseguenze sociali possono essere gravissime. DARIO ODIFREDDI (presidente Piazza dei Mestieri e membro di Al Lavoro)

Non ci sarà più lavoro per gli uomini e le donne del XXI secolo, annunciano intellettuali ed economisti spaventando le masse e deprimendo i giovani. I robot ci toglieranno il lavoro e non ci resterà che tassare chi li produce per avere un po' di reddito con cui vivere e passare le nostre giornate nell'ozio.
Riecheggiano le grida dell'inizio del novecento quando si annunciava che la rivoluzione industriale avrebbe distrutto posti di lavoro facendo aumentare enormemente il numero dei poveri. Non è andata così, la povertà è diminuita, la produttività è aumentata, i salari e i consumi sono cresciuti. Molte persone hanno migliorato le proprie condizioni di vita e hanno trovato un lavoro.
Il lavoro che cambia, lo sviluppo tecnologico che avanza non sono una condanna, sono una sfida, il lavoro non sta finendo, sta cambiando, come sempre accade quando un nuovo paradigma si afferma.
Allora la questione è raccogliere la sfida, chiedersi cosa serve per vincerla, attrezzarsi per affrontare la transizione che certamente nel breve periodo penalizzerà in modo rilevante alcuni settori e i suoi occupati.
Non c'è dubbio che nel nuovo mondo che verrà (e che in parte è già venuto) accanto all'intuizione e alla creatività proprie dell'uomo, sarà chiesto ai lavoratori di avere competenze e conoscenze sempre più articolate. Come dicono in molti, i nostri figli dovranno studiare più di noi e dovranno continuare a farlo per tutta la vita.
E' sui sistemi educativi che si giocherà la partita decisiva per il nostro futuro ed è su questo che prioritariamente dovremmo concentrare i nostri sforzi. Una sfida che vede il nostro paese già oggi in grande difficoltà, come dimostrano drammaticamente le analisi nazionali e i confronti internazionali (si veda l'ultimo rapporto Ocse). Gli alti tassi di abbandono scolastico, la diffusa percezione degli studenti della poca utilità della scuola, il basso numero di laureati, la mancanza di un sistema formativo strutturato e diffuso, la disoccupazione (soprattutto giovanile), i bassi tassi di occupazione, la lunga transizione tra la scuola e il lavoro, sono alcuni dei sintomi di queste difficoltà.
Si tratta innanzitutto di aprire una riflessione culturale. Chiediamoci se lo scopo della scuola è garantire un saper enciclopedico o piuttosto quello di dotare gli studenti di un metodo critico e sistematico basato sulla capacità di imparare ad imparare; solo avendo chiarezza sugli scopi, una riforma (ad esempio quella dei cicli scolastici e formativi) potrà essere utile.
Chiediamoci se il pluralismo educativo è una risorsa, superando vecchie logiche che contrappongono scuole statali e paritarie, sistema dell'istruzione e sistema della formazione professionale, istruzione terziaria accademica e non, conoscenze e competenze.
Chiediamoci se strutturare un'offerta educativa basata su sussidiarietà e merito (dove le risorse pubbliche investite seguono la capacità di generare risultati) non sia più efficace del continuare sulla strada del centralismo, della burocratizzazione di tutti i processi, dei concorsoni nazionali e dei bandi.
Chiediamoci perché in Italia esiste un sistema formativo, in cui già operano molte eccellenze, che non riesce a decollare e a estendersi lungo tutto la penisola, né nella fascia dell'obbligo di istruzione né in quella della formazione terziaria non accademica.
Molta della sterilità del dibattito attuale e delle difficoltà a rendere operative le politiche attive previste dal Job Act o delle formazione legata al cosiddetto piano Calenda sull'industria 4.0, così come il fatto che Garanzia Giovani funziona meno bene che in altri paesi, dipende dal non avere scelto come priorità politica di rendere operativo e strutturale un serio sistema di formazione professionale. Già oggi le imprese non trovano uomini e donne in grado di coprire posizioni lavorative disponibili.
Proprio per iniziare a superare questi limiti è stato proposto un emendamento alla legge di Bilancio 2018 che chiede la stabilizzazione del sistema duale in Italia ed è in corso un dialogo sulla necessità di aumentare considerevolmente nei prossimi anni le risorse per gli Its (Formazione terziaria non accademica). Si tratta di due strumenti che funzionano e che generano occupazione rispondendo in modo adeguato alle richieste delle imprese.
Infrastrutturare un sistema formativo che si affianca a quello scolastico è dunque uno dei pilastri necessari per sostenere il futuro dei nostri giovani, seguendo la strada che molti paesi europei hanno già intrapreso da diversi anni. E' una sfida che chiama in causa singolarmente ciascuno di noi, ma anche i corpi sociali, le istituzioni e la politica. Dobbiamo cambiare smettendo di pensare secondo logiche ancorate ai modelli del secolo scorso; il lavoro si difende investendo sulla formazione, non garantendo un posto, le policies sul lavoro devono essere strutturali e non ondivaghe, la povertà non si combatte occupandosi solo degli ultimi, ma anche dei penultimi, cioè di quella enorme e consistente area grigia in cui tante persone e tanti giovani oggi si trovano.
Ci vorranno quella tenacia, quel coraggio e quella creatività che già il nostro popolo ha dimostrato in altri momenti storici (basti pensare al dopoguerra) e ci vorrà la capacità di dialogare partendo da storie e identità diverse con un rinnovato amore al bene comune. Un amore al bene comune che dovrà interrogarci anche sulla nostra capacità di accogliere e di rendere protagonista chi arriva da altri Paesi, così come sul coraggio di mettere al mondo figli. Perché la sfida si vince solo con la linfa vitale dei giovani e il problema demografico è oggi una delle grandi spada di Damocle sulle nostre teste.
Proprio dal desiderio di dare un contributo di riflessione e di proporre strade percorribili è nato Al Lavoro (www.allavoro.eu), un luogo di pensiero e di azione ispirato alle tradizioni liberale, cattolica e laburista, che vuole promuovere un dibattito di qualità su come il nostro Paese possa ancora essere una Repubblica fondata sul lavoro anche nel XXI secolo. Un contributo non gridato, non fatto di slogan, ma allo stesso tempo lontano da quel conformismo culturale e politico che troppo spesso soffoca la ricerca di una strada realista e percorribile.