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Famiglia e Politica: ecco come uscirne

I cittadini sono vittime di un malsano populismo che si ritorce contro anche a chi lo pratica.

Le parole del 12 aprile (al termine delle consultazioni
post elettorali) del Presidente Mattarella, sono
risuonate – ai più – assolutamente adeguate per
responsabilità verso il bene pubblico e per buon
senso.
Nessuna complicazione: parole essenziali. “I care” la
cosa pubblica, pareva di capire in un discorso di
pochi secondi. Sono trascorsi ormai diversi mesi da schermaglie sterili quanto puerili tra i
candidati politici che giocano al vincitore ma non al primo sul traguardo della responsabilità.
Tutti hanno vinto ma nessuno riesce a servire con un Governo; i cittadini sono vittime di un
malsano populismo che si ritorce contro anche a chi lo pratica. La democrazia domanda la
reale libertà di mettersi in gioco senza preoccuparsi di “bruciare” la propria carriera politica.
Stride questo stallo con lo scenario internazionale e con le urgenze italiane, oggetto di una
agenda politica che non parte.
Le radici di questa confusione partono da lontano, da una causa disgregante la società nella
sua essenza. Da quando la famiglia, quale cellula fondante del vivere civile, è stata ferita nei
suoi diritti, confusione e squilibrio sono più evidenti, nei rapporti interpersonali e tra le forze
che animano la società, partiti compresi.
Le stesse prevaricazioni dell’uno sull’altro, con la pretesa di spaccarsi a vicenda, dimostrano
una assoluta mancanza di dialogo, che dovrebbe stare naturalmente al cuore della società Entrando maggiormente in medias res, occorre ricordare che la Repubblica non “attribuisce” i
diritti alla famiglia, ma si limita a “riconoscerli” e a “garantirli”, in quanto preesistenti allo
Stato, come avviene per i diritti inviolabili dell’uomo, secondo quanto dispone l’articolo 2
della Costituzione. Da qui possiamo ripartire per trovare le motivazioni giuridiche atte a
riflettere ed eventualmente a comprendere come poter sanare il guasto evidente della
società contemporanea, dovuto anche alla grave crisi della famiglia. Occorre infatti chiarire i
rapporti tra famiglia e Stato superando una errata sussidiarietà al contrario. Un welfare
capace di ristabilire l’armonia e il corretto ordine delle sue componenti, recuperando una
dimensione “a misura di famiglia”, sarà la garanzia contro ogni deriva di matrice individualista
o collettivista. Nella famiglia il “noi” non sacrifica il singolo bensì, mentre rispetta quest’ultimo
e ne persegue il bene, ha di vista il bene comune.
La famiglia diviene cosi modello per una società improntata a solidarietà, partecipazione,
aiuto reciproco, giustizia. Scrive sapientemente Gregoria Cannarozzo in “Il principio di
sussidiarietà, la scuola e la famiglia”: “(..) la interazione scuola-genitori nel nuovo scenario
creato dalla costituzionalizzazione della sussidiarietà orizzontale e verticale e recepito dalla
riforma del sistema di istruzione e di formazione (legge 53/2003) dà nuova cittadinanza alla
famiglia potenziando la reciproca valorizzazione del ruolo e della funzione di quella che è la
prima e fondamentale formazione sociale entro cui si svolge la personalità di ciascuno (art. 2
della Costituzione). Proprio in forza del fatto che, specificamente nella famiglia, che può
essere considerata, per i suoi aspetti di reciprocità, relazionalità, solidarietà, fiducia, una delle
forme primarie della Welfare Community, e fonte di capitale sociale, la persona diventa
titolare di diritti non in quanto semplice individuo bensì in quanto membro della famiglia
medesima.” La società e lo Stato, nelle loro relazioni con la famiglia, hanno l’obbligo, di
attenersi al principio di sussidiarietà, in forza del quale le autorità pubbliche non devono
sottrarre alla famiglia quei compiti che essa può svolgere da sola o liberamente associata con
altre famiglie. Questo contempla il dovere da parte delle stesse autorità di sostenere la
famiglia, assicurandole tutti gli aiuti di cui essa ha bisogno per assumersi in modo adeguato
le sue responsabilità.
La crisi odierna appare cosi la risultanza di una logica ambivalente che lo Stato dal Novecento
ad oggi ha adottato verso la famiglia: da un lato l’ha esaltata come luogo degli affetti privati,
cellula del mercato e del consenso politico, dall’altro l’ha nei fatti combattuta come sfera
caratterizzata da legami forti e stabili, potenzialmente oppressivi. Un’ambivalenza che ne ha
caratterizzato la sfera educativa. Non si guarda alla famiglia come soggetto di diritti e di
azioni che incidono nella società civile, bensì come soggetto che consuma in una logica
stringente di mercato. Eppure sarebbe importante che il rapporto tra famiglia, società
intermedia e Stato si mantenesse costante, aperto e costruttivo per affrontare insieme le
criticità che emergono dalla società contemporanea.
L’identità umana, benché non si esaurisca nell’esperienza familiare, ritrova in essa la palestra
che le permette di realizzarsi in pienezza. Una civiltà che non è in grado di difendere la vita
dei più deboli, dei nascituri, dei più poveri e degli ammalati, uno Stato che non riconosce e
non difende il diritto primordiale alla scelta in ambito educativo da parte della famiglia si
condannerebbero alla disumanizzazione e finirebbero per rinnegare i principi democratici,
espressi a parole nella carta costituzionale. Un monito che ci richiama alla nostra
responsabilità. “La Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del
popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal
Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono
fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà.” (Luigi Sturzo).
A che cosa serve riconoscere un diritto se poi non lo si garantisce? È una domanda che
viene proposta dal 2010, senza ottenere alcuna risposta. Ricordiamo la sapienza dei
Costituenti, coraggiosi davvero, se si considera che sono stati disposti a dare la vita e a non
ricevere il vitalizio. All’art. 3 dei princìpi fondanti della Costituzione, essi scrivono: «È dovere
e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del
matrimonio». È stato più volte dimostrato che i genitori, per esercitare la propria
inderogabile responsabilità educativa, devono poterla esprimere liberamente. E la libertà
implica una possibilità di scelta, che necessariamente –se non si vuol ricadere in quella
contraddizione in termini che, per dirla con le parole di Aristotele, “ci rende tronchi”–
domanda pluralismo educativo. Buona la scuola pubblica statale (cioè dallo Stato gestita e
controllata), buona la scuola pubblica paritaria (quella scuola che dallo Stato non è gestita,
ma controllata).
Ma l’Italia ignora questo elementare principio di diritto: in realtà, la famiglia è considerata
dallo Stato “incapace di intendere e di volere”. Può scegliere, infatti, di ricoverare il nonno al
San Raffaele pagando un ticket, ma non può scegliere di educare il figlio presso una buona
scuola pubblica paritaria, la quale fa parte, come la pubblica statale, del Servizio Nazionale di
Istruzione. I genitori, con il loro lavoro, non riescono a pagare e le tasse per la scuola
pubblica statale e la retta che fa funzionare la scuola pubblica paritaria che vorrebbero. I
poveri, insomma, devono pagare due volte per esercitare il loro diritto di libera scelta,
nonostante la Costituzione reciti: «La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non
statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un
trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali (art. 33, comma
4)». In Italia il figlio dell’operaio e quello del portinaio non possono scegliere una buona
scuola pubblica paritaria, mentre può farlo il figlio del deputato, anche del grillino, che in
campagna elettorale era contro le paritarie, ma intanto vi accompagnava ogni giorno il
pargolo, pagando una retta di € 3.500 annui. La famiglia povera, dunque, deve iscrivere il
figlio alla scuola pubblica statale. Non resta che pensare che lo Stato italiano abbia applicato
il secondo comma dell’art. 30: «Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che
siano assolti i loro compiti».
L’Italia è, in questo ambito, la più grave eccezione in Europa. Una libertà così osteggiata
poteva forse non alimentare il processo di delegittimazione del ruolo dei genitori e, con loro,
dei docenti? Una scuola che negli anni ha rifiutato la valutazione e la meritocrazia, una scuola
preda dei sindacati, che l’hanno ridotta ad ammortizzatore sociale, poteva forse aspettarsi
un esito differente? E oggi, pur di continuare a negare l’urgenza di garantire la libertà di
scelta educativa ai genitori (assicurata invece, ad esempio, nella laica Francia), si
stigmatizzano gli studenti come violenti, si rispolvera la notizia di reato e la pena, invocando
una tutela per i docenti. Follia, ignoranza o –peggio– malafede?
Il fenomeno sociale odierno ci impone una riflessione non punitiva o di tutela, bensì di
garanzia del diritto principe dei genitori, che è quello di esercitare liberamente la propria
responsabilità educativa: solo da qui potrà scaturire la legittimazione di tutte le parti
coinvolte. I sindacati, i politici, i cittadini sono disponibili ad una serietà di argomentazione su
questo tema?
La via maestra per assicurare una effettiva autonomia delle istituzioni scolastiche e una reale
parità scolastica passa dalla riorganizzazione del finanziamento dell’intero Sistema Nazionale
di Istruzione attraverso la definizione del costo standard di sostenibilità per allievo. Lo
dimostra scientificamente –dati alla mano– il saggio Il diritto di apprendere. Nuove linee di
investimento per un sistema integrato, ed. Giappichelli 2015, di Alfieri, Grumo, Parola, con la
prefazione dell’on. Stefania Giannini. In pratica, dotando ogni alunno di un cachet da
spendere nell’istituto che intende scegliere, si realizzerebbe finalmente il pluralismo
educativo, dando così alle famiglie la possibilità di decidere fra una buona scuola pubblica
statale e una buona scuola pubblica paritaria, a costo zero. Si attiverebbe, inoltre, una sana
concorrenza tra le scuole pubbliche, statali e paritarie, mirata al miglioramento dell’offerta
formativa. L’alternativa è quella dei finanziamenti a pioggia per fantomatici progetti, che
rappresenta però il tracollo economico della scuola pubblica statale nonché l’impossibilità di
garantire il pluralismo educativo offerto dalla pubblica paritaria.

È il rischio della scuola unica di regime, che già si corre.

Tecnica della Scuola del 16 aprile 2018 - Anna Monia Alfieri