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Regole e rispetto: la funzione educativa dello sport

Il gioco di squadra è educativo perché vediamo nell’altro colui che ci può aiutare o essere aiutato

Partite sospese, genitori che davanti ai figli si picchiano sugli spalti, arbitri scortati dalla polizia: ma cosa sta succedendo al calcio e allo sport in generale? «Credo che dipenda da un clima generale e sociale che non riguarda solo lo sport – sottolinea l’arcivescovo di Modena, Erio Castellucci –. Purtroppo, oggi si vive l’altro come avversario quindi il concorrente diventa colui che deve essere battuto. C’è da dire che a volte sono i genitori a fare opposizione; diventando più tifosi dei figli, pretendendo che tutti diventino campioni. Quando c’è qualcosa in campo, che a loro giudizio non va bene, creano questo clima di ulteriore conflittualità. Anche quando ero ragazzino, non sempre tutto era tranquillo. Vorrei però sottolineare il valore ludico: lo sport rimane un gioco anche quando viene praticato a alti livelli. Se si perde questa qualità allora tutto diventa un elemento di conflitto sociale». Castellucci ricorda il valore educativo dello sport, «purché – avverte – venga praticato nel modo giusto». «L’allenamento è educativo – ricorda l’arcivescovo –. Il gioco di squadra è educativo perché vediamo nell’altro colui che ci può aiutare o essere aiutato. Anche la fatica, fatta per un fine è educativa. L’importante che lo sport venga praticato nel modo giusto».

Sulle origini di questa «aggressività sociale » che si riversa sullo sport, interviene Maurizio Colombo, arbitro del Csi di Mantova, esperto di educazione. «Vorrei ricordare che se la società è in pericolo non è in conseguenza all’aggressività dell’uomo ma lo è a causa della sua repressione – afferma –. Questa si può esprimere in modo

manifesto ovvero con distruttività e violenza, in modo larvato attraverso l’ostilità, o in modo incanalato attraverso il gioco e l’agonismo sportivo. L’individuo frustrato, che si ritiene non dovutamente soddisfatto e valutato, tende a divenire quasi inevitabilmente aggressivo per difendere il suo io compromesso. Siccome è difficile individuare il motivo scatenante – insiste Colombo – si possono individuare le principali ragioni: problemi climatici, familiari, personali e sociali. Alcuni sono più facili da accettare, perché vissuti come accidentali, non intenzionali, non diretti contro la persona. Assai meno facili da metabolizzare sono quelli derivanti dall’azione di altri individui. L’autoritarismo e l’organizzazione gerarchica, l’arbitrarietà dei giudizi e del riconoscimento dei meriti, possono indurre reazioni immotivate ed esagerate».

Quando un bisogno, ad esempio di riconoscimento o di affermazione, rimane insoddisfatto, conclude Colombo, «si determina nell’individuo un accumulo di energia intrapsichica, che ricerca in continuazione un mezzo per scaricarsi». «La soluzione è l’educazione – ribadisce Colombo –. Come mi hanno insegnato nel Csi, l’arbitro non deve essere solo un giudice ma anche un maestro di regole e civiltà. Allora ha un senso il mio ruolo».