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«Riportiamo gli studenti in classe: soltanto così saranno al centro della vita sociale»

Mesi di didattica a distanza stanno lasciando pesanti conseguenze sulla crescita di bambini, ragazzi e giovani

Dad: un acronimo (didattica a distanza) tre lettere solitarie che spiegano quel fenomeno “inventato” per limitare la paura del contagio. L’Agesc ha sempre spinto verso la didattica in presenza, ma purtroppo causa il rosso che avanza tantissimi ragazzi sono costretti a casa. L’Associazione nazionale presidi insieme al centro di Ricerca Dites, il Forum delle Associazioni familiari (tra cui è presente l’Agesc) e Aidr, ha raccolte 6.821 risposte da dirigenti scolastici, docenti, studenti e famiglie, mediante rilevazione online. I risultati parlano del 52% dei dirigenti scolastici con difficoltà nel garantire l’assistenza agli studenti con disabilità, oltre il 38% ha segnalato un aumento consistente della percentuale di assenze e di partecipazione da parte degli studenti. Problemi strutturali ce ne sono stati, inutile negarlo, e persistono ancora oggi. Ma è anche fuor di dubbio il lavoro più complesso che si sono dovuti sobbarcare gli insegnanti: quanto tempo in più sia necessario per organizzare la lezione da remoto che risulti degnamente inclusiva e coinvolgente, e lo sforzo fatto in formazione per adeguarsi e conoscere in tempi rapidi i nuovi strumenti digitali. Ma i protagonisti, cioè i ragazzi, cosa ne pensano? All’inizio molti hanno apprezzato la didattica digitale convinti che la lontananza da scuola avrebbe favorito divertimento e libertà dalle ansie dovute al confronto con interrogazioni e verifiche varie. Purtroppo dopo qualche settimana, però, anche i giovanissimi si sono resi conto delle problematicità della Dad: come sentirsi veramente liberi di fronte a disorganizzazione, obbligo ad avere la telecamera accesa, necessità di condividere con più persone gli stessi spazi fisici e virtuali, impossibilità di staccare mentalmente dagli impegni scolastici nonostante la presenza di intervalli più lunghi, spiegazioni incomprensibili?

La vita si è interrotta di colpo: niente più passeggiate, niente visite agli amici, niente abbracci e strette di mano, ma solo ansia, tristezza, solitudine, noia, incapacità di sviluppare relazioni interpersonali sane e costruttive. Il grigiore del virtuale ha dissolto le diverse sfumature del reale. Dalla scuola all’amicizia, tutto è dovuto passare attraverso una rete di connessione telematica che sembra aver privato i più giovani della possibilità di sperimentare la profondità dei legami, la vivacità delle emozioni, il calore della vicinanza. Il conseguente disagio si è manifestato in diverse forme, dai frequenti sbalzi d’umore ai disturbi del sonno, dal cambiamento delle abitudini alimentari (con effetti dannosi sulla salute) all’aumento delle dipendenze dai videogiochi e dai social che creano un distacco dalla realtà e rappresentano un vero pericolo per la maturazione delle nuove generazioni e per la loro partecipazione attiva alla costruzione del futuro. Questi sono solo alcuni dei sintomi preoccupanti che il lockdown ha lasciato nei giovani. E ancora oggi, sebbene le misure restrittive sembrino essersi allentate, il cammino faticoso di ritorno a una normalità più colorata non può dirsi compiuto. Probabilmente alcuni ragazzi hanno anche appreso l’abilità di cogliere il positivo dal negativo: basti pensare al recupero, laddove possibile, dei legami familiari e alla riscoperta della bellezza di passare del tempo al riparo dalla frenesia della vita quotidiana. Ma ciò non ci autorizza a distogliere lo sguardo dalle ferite che questo periodo ha inflitto agli adolescenti e che tenderanno a riemergere nel futuro. Sarebbe opportuno, quindi, realizzare un intervento mirato e organizzato che rimetta i giovani al centro della vita socio- economica e culturale del Paese e che fornisca loro quegli aiuti materiali e immateriali utili ad affrontare il presente e i suoi problemi con quella leggerezza che - come diceva Italo Calvino - «non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». Ecco la ragione delle proteste degli studenti che vogliono tornare a scuola. Solo il rientro in classe dopo mesi di isolamento ha permesso agli studenti di constatare con più evidenza quanto tutto ciò abbia danneggiato l’apprendimento e il processo di crescita dei ragazzi, in particolare di quelli più fragili. E proprio grazie alla riscoperta della scuola come luogo fisico, i giovani sembrano essersi riavvicinati agli adulti nella comune consapevolezza dell’importanza di una didattica in presenza, l’unica che permette di sentirsi meno soli.
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Fonte:Avvenire