Elezioni e Lavoro - I nodi da sciogliere sulla disoccupazione giovanile
La disoccupazione giovanile in Italia è un problema strutturale. Urgono interventi di cui si parla poco in questa campagna elettorale, spiega DARIO ODIFREDDILa disoccupazione giovanile in Italia è un problema strutturale. Dal
1980 sino all’inizio della crisi degli ultimi 10 anni si attestava tra
percentuali comprese tra il 20% e il 30%, nell’ultimo decennio è
esplosa raggiungendo tassi del 45% e al sud superiori al 50%. La
natura strutturale del problema implica che non si può agire con
strumenti congiunturali e chiede un’azione profonda con un respiro di
medio-lungo periodo. Questa necessità trova poi ulteriore conferma
nei profondi cambiamenti che interessano il mercato del lavoro
caratterizzato da mutamenti legati all’innovazione che si fanno sempre
più rapidi.
Occorre dunque cominciare a porsi le domande giuste e capire quali
sono gli snodi cruciali. Il primo snodo è legato ai percorsi educativi:
troppo alto (anche se in diminuzione) resto il tasso di dispersione
scolastica, troppo lunga la transizione tra il termine degli studi e
l’inserimento nel mondo del lavoro, troppo elevato il mismatch tra le
competenze richieste dalle imprese e la formazione dei giovani, troppi
i giovani che vanno all’estero perché non trovano opportunità nel
nostro Paese.
Il secondo snodo attiene al mercato del lavoro: continuano a latitare
politiche attive strutturali e coerenti, resta eccessiva la tassazione sul
lavoro, si continua ideologicamente ad associare al precariato ogni
lavoro che non sia a tempo indeterminato.
Purtroppo la campagna elettorale è partita col piede sbagliato,
promesse roboanti costose e inutili che penalizzano soprattutto i
giovani. La prima bufala è che abolire la Legge Fornero aiuterà i
giovani a trovare lavoro, mentre è vero il contrario: le risorse
necessarie per abolirla verrebbero tolte alle politiche di sviluppo o
peserebbero ulteriormente sul debito pubblico e cioè sulle spalle dei
giovani. Altre proposte demagogiche come l’abolizione delle tasse
universitarie non servono a migliorare il sistema educativo e
penalizzerebbero i capaci e meritevoli, il reddito di cittadinanza
vagheggiato in varie forme dalle diverse formazioni politiche sembra
prefigurare lo spostamento da una repubblica fondata sul lavoro a una
fondata sui consumi. Si potrebbe continuare a lungo, ma quello che
conta è iniziare a svelare come la sfida di sostenere i giovani nel
percorso verso il lavoro paia per ora tradita dalla maggior parte delle
proposte in campo.
Tornando ai sistemi educativi vi sono alcune priorità su cui investire.
Innanzitutto dobbiamo combattere la dispersione scolastica e per far
questo si deve rafforzare l’alternanza scuola-lavoro, vera conquista
culturale della legge sulla buona scuola, rendere strutturale la
sperimentazione del sistema duale promossa dal ministero del Lavoro
e il conseguente potenziamento dell’apprendistato di primo livello,
rafforzare e ampliare la presenza delle Formazione professionale
iniziale (I&FP) che ha dimostrato in questi anni nelle regioni in cui
esiste di essere in grado di combattere la dispersione scolastica e di
favorire l’inserimento lavorativo dei giovani.
Contemporaneamente è necessario generare e rendere stabile un
sistema di formazione terziaria non accademica che, come dimostrano
i Paesi in cui è maggiormente presente, è in grado di creare quei
profili che realmente servono alle imprese e di portare i giovani verso
quelle competenze da tutti invocate del nuovo paradigma
dell’industria 4.0. I novemila giovani coinvolti in questo processo in
Italia nel sistema degli Its rispetto agli ottocentomila della Germania
sono una delle spiegazioni rilevanti del diverso tasso di disoccupazione
giovanile tra i due paesi.
Questo investimento in termini di risorse può valere tra 1,5 e 2
miliardi all’anno; certo una cifra significativa, ma ben al di sotto di
tante inutili proposte oggi all’ordine del giorno. Inoltre, il saldo tra
persone che lavorano e contribuiscono alla fiscalità generale al posto di
assistiti con redditi di cittadinanza varia sarebbe certamente positivo.
L’altra grande e per ora largamente disattesa sfida è quella di dar vita
a un mercato del lavoro dinamico che superi la visione novecentesca e
si apra ai nuovi paradigmi che sempre più si affermeranno nei
prossimi anni. Il Jobs Act ha iniziato questo percorso dal punto di
vista culturale superando alcuni totem come quello dell’articolo 18, ma
al tempo stesso la grande sfida di costruire un sistema di politiche
attive efficace e diffuso è ancora al palo, sia per assenza di proposte
operative adeguate, sia per la confusione che si è generata dopo il
referendum del 4 dicembre sulle competenze tra ministero del Lavoro
e Anpal. Sempre in questa direzione serve un ripensamento degli
strumenti per l’occupabilità come Garanzia Giovani e gli stessi fondi
strutturali gestiti dalle Regioni.
Dal punto di vista culturale, poi, l’insistenza sul binomio lavoro a
tempo indeterminato e precariato è un ulteriore retaggio della cultura
del secolo scorso; si continua a ragionare come se fossimo nell’epoca
fordista, mentre basterebbe guardare le serie storiche della mobilità
dei lavoratori da un’azienda all’altra per capire che quel mondo non esiste più da anni e che mai tornerà. Il tema è invece quello di una
giusta retribuzione e di un set di politiche che accompagni il
lavoratore nel suo percorso fatto di cambiamenti e anche di periodi di
inattività. Su questo aspetto pare decisiva un’innovazione che non
riguarda solo le leggi, quanto piuttosto la capacità dei soggetti di
rappresentanza di ripensarsi. Una contrattazione territoriale e
aziendale meno vincolata da quella nazionale, una politica retributiva
più legata alla produttività, una minor pressione fiscale sul lavoro con
particolare attenzione a quello giovanile che rifugga da forme
ondivaghe di decontribuzione che rischiano solo di generare
distorsioni o successi effimeri di breve periodo, sono solo alcuni
esempi di questo possibile percorso.
Si tratta di un piano ambizioso, ma allo stesso tempo semplice da
attuare. Un piano che coerentemente con la natura strutturale dei
problemi su cui vuole intervenire deve rifuggire da misure
estemporanee e da sperimentazioni che nascono e muoiono nel giro di
uno e due anni.
da Gi Group del 19 gennaio 2018