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Scuola, primi bilanci: riflettiamo sul futuro, guardando il presente

Le lezioni sono terminate ormai da più di una settimana e sono in uscita i risultati finali. Le quinte del secondo grado e le terze del primo sono già state scrutinate e stanno pensando agli esami. A poco a poco si esaurirà anche la fase delle pubblicazioni e per molti ragazzi si aprirà un’estate piena di distensione e di respiro, per qualcuno ci sarà l’incombenza di ritornare a impegnarsi nei corsi di recupero per affrontare le verifiche di accertamento sul superamento dei debiti formativi evidenziati agli scrutini finali. Per qualcuno ci sarà anche l’amarezza di una “non ammissione”, ma, si sa, i bilanci non sempre si concludono positivamente.

Al di là, tuttavia, di queste riflessioni, avendo notizia di frequenti situazioni conflittuali, di periodici ricorsi ai tribunali amministrativi, di lamentele e talora perfino di insulti all’indirizzo di docenti e presidi da parte di genitori e studenti che non hanno voluto o saputo accettare i risultati finali negativi, ci sembra necessaria una riflessione seria su un delicato aspetto della vita scolastica. Da un lato sembra che la scuola sia giunta a ricoprire nella società civile un ruolo di importanza fondamentale. Dall’altro si assiste a una diffusa insofferenza nei confronti delle valutazioni e soprattutto degli insuccessi dei figli, con una tendenza ad attribuirne la responsabilità alla stessa scuola.

Non solo. Sempre più di frequente docenti e presidi si trovano di fronte a certificazioni di vario tipo, finalizzate non solo a motivare l’adozione di interventi compensativi o dispensativi , ma anche funzionali a evitare stress e tensioni che pregiudicherebbero la serenità dell’apprendimento. Bisogna pur dire che la formazione continua ha creato contesti ben diversi che in passato, ma non sembra fuori luogo chiedersi fino a che punto si possa accettare come ordinaria una situazione che ormai vede in ogni classe quasi in maggioranza gli allievi con qualche certificazione protettiva, rispetto a quelli che ne sono privi. Si ha in qualche caso l’impressione che la certificazione sia il risultato più di un’esigenza dei genitori che degli stessi allievi. Si badi bene che questa constatazione non tocca le certificazioni previste dalla legge 104/1992, nei confronti delle quali la scuola ormai ha un’esperienza trentennale collaudata e di altissimo livello.

La questione, dunque, è un’altra: fino a che punto è giusto eliminare ogni forma di impegno e di tensione nella vita scolastica? Fra la durezza di una selezione di sistema, quale è quella sperimentata da coloro che hanno frequentato la scuola fino ai primi anni Novanta del ’900, e l’attuale contesto post-pandemico, nel quale sembra necessaria ogni forma possibile di comprensione, anche eccessiva, di fronte all’incapacità di sostenere gli impegni, è possibile trovare una linea di equilibrio? Vale ancora il principio che il disagio in giusta dose è come l’attrito, senza il quale non è possibile camminare e reggersi in piedi? I pavimenti troppo lucidi sono pericolosi. Il grip è essenziale per le moto in curva lanciate a trecento all’ora. In altre parole: una scuola che non educa all’impegno e che non richiede nessuno sforzo, ma diventa garanzia di successo per il solo fatto di frequentarla, ha ancora un significato? Forse è tempo di ripensare radicalmente non solo la valutazione, ma la stessa organizzazione scolastica. E allora? Forse dobbiamo pensare a una scuola che certifichi la frequenza e al massimo attesti i livelli di competenza raggiunti di anno in anno, senza una valutazione finale complessiva e che si organizzi non più per classi, ma per livelli. Forse dobbiamo liberare presidi e docenti dall’onere di dover spiegare ai genitori come e perché vanno studiate le discipline; forse dobbiamo pensare a una scuola alleggerita della responsabilità di render conto alla società civile se chi studia è in grado di affrontare l’università o il mondo del lavoro.

Una scuola che organizzi l’apprendimento in nuove forme e che certifichi solo a quale livello è giunto uno studente, senza fermare più nessuno. Saranno i genitori e la società civile a decidere il futuro, e allora l’attrito sarà una cosa seria. Si tratta solo di esserne consapevoli: siamo pronti a questo?

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Fonte:Avvenire